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Una settima domanda: stiamo gestendo bene le relazioni con i medici?

Non meno importanti sono le relazioni con i medici. Sono i nostri interlocutori di quella medicina scientifica, professionale e organizzata che ci fornisce le cure. Anche con loro facilmente avremo problemi da gestire. I medici potrebbero non gradire il nostro sforzo di restare autonomi, per una serie di ragioni, come il timore di perdere il controllo della cura o la difficoltà di impegnarsi in discussioni che vanno anche al di là dei temi cui sono abituati. Possono essere a disagio per il fatto che ci documentiamo e allarghiamo l’orizzonte delle opzioni terapeutiche. Questo nostro modo di fare può essere percepito  come una minaccia al loro prestigio professionale o può metterli a disagio per il semplice fatto che devono impegnarsi più del solito a studiare e a ragionare.

 

La tradizionale cultura professionale dei medici non va d’accordo con quel rapporto medico-paziente che occorre per portare avanti una cura intelligente del cancro. Per tradizione c’è la tendenza a considerare le competenze professionali di un medico come un possesso personale, qualcosa di ben definito che quel medico, grazie agli studi e all’esperienza, ha nella propria testa, padroneggia e usa per rispondere alle richieste.

In realtà questo modo di concepire le competenze mediche non regge più. Non è più sostenibile per una serie di ragioni, come i rapidi progressi della medicina, lo sviluppo delle cominicazioni e delle nuove tecnologie, la crescente complessità dei sistemi sanitari, il fatto che i professionisti sono chiamati sempre più spesso a rendere conto pubblicamente del proprio operato. Può aiutarci a capirlo il racconto di un episodio illuminante – per leggerlo clicca sul pulsante in fondo alla pagina.

Tra le ragioni che rendono inadeguata la vecchia concezione delle competenze professionali c’è anche l’esigenza sempre più evidente di cambiare il modo di rapportarsi ai pazienti. Chi sta male oggi ha accesso alle informazioni, avverte il bisogno di essere protagonista della sua cura. Al tempo stesso va aiutato a non smarrirsi e guidato, sebbene senza imporsi e senza sostituirsi a lui. Per fare questo però ci vogliono medici con una visione più fluida e dinamica delle proprie competenze, non più ancorati all’idea che la competenza sia un possesso personale.

Spesso è difficile instaurare un aperto rapporto di dialogo con i medici perchè lo impedisce il burnout. È una sindrome psicologica che colpisce chi fa una professione di aiuto e alla quale gli oncologi sono particolarmente esposti. Sembra derivi soprattutto dall’esperienza di darsi da fare e avere risultati deludenti. Il termine suggerisce che chi soffre di questo disturbo è come bruciato. Ha esaurito le sue risorse e sente di non essere realmente più in grado di rapportarsi agli altri e aiutarli.

Gli studi dicono che sono molti gli oncologi in burnout. Spesso però non se ne rendono conto e neppure chi ci ha a che fare lo capisce. Il punto è che, quando sono "bruciati", dovendo continuare a fare gli oncologi, reagiscono in vari modi, come fare i cinici o i burocrati attaccati ai protocolli o gli insicuri o gli ansiosi o i dispotici. Così il loro disturbo psicologico dovuto al disagio del lavoro che fanno viene scambiato per un fatto di carattere. In ogni caso chi è in burnout difficilmente accetta di aprire un confronto aperto e sereno con un paziente o se lo fa tende a farlo più in apparenza che nella realtà, recita una parte. Ma noi abbiamo bisogno di interlocutori veri, oltre che disponibili.

Per gestire la nostra mente e le relazioni con persone care e medici dobbiamo diventare un po’ psicologi o almeno imparare qualcosa della psicologia del cancro, avere idea di quelle dinamiche psico-sociali che tendono ad accompagnare questa malattia.

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