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Una seconda domanda: conserviamo la nostra autonomia decisionale?

Quando siamo malati fattori sociali e psicologici ci spingono a essere meno padroni di noi stessi, a lasciare che altri decidano molte cose per noi. Ma se vogliamo curarci intelligentemente ci conviene conservare la nostra autonomia decisionale.

La medicina, così com’è oggi, chiede al malato di essere dipendente, di affidarsi ad addetti ai lavori lasciando che pensino e decidano per lui in forza di direttive tecniche. Si basa sulla scienza medica moderna, centrata più sulla biologia della malattia che sulla vita di chi sta male, e si avvale di una complessa organizzazione con professionisti specializzati e ospedali.

 

Questa medicina scientifica, professionale e organizzata ci ha fatto fare grandi progressi nelle cure ed è una conquista straordinaria. Tuttavia in una medicina così il malato finisce in genere per perdere quella autonomia che come persona normalmente ha:  dal momento in cui si ammala nella sua vita c’è uno spazio più o meno grande in cui non è più il centro delle decisioni che lo riguardano.

Da decenni a livello internazionale si insiste sul fatto che la salute non è solo assenza di malattia, che la sanità dovrebbe cambiare, tendere al benessere delle persone (psicologico e sociale, oltre che biologico), e che medici e pazienti dovrebbero essere impegnati assieme per costruire il benessere. Ottimi propositi, che però non sempre trovano applicazione. Sono stati fatti molti sforzi per ridare autonomia al malato, ma di fatto, ora più ora meno, su chi è in cura c’è una pressione a renderlo docile e sottomesso.

Quando ci ammaliamo di cancro tendiamo a perdere autonomia per motivi psicologici, oltre che per le pressioni sociali, per com’è la sanità oggi. Un fattore decisivo è la paura. Metterci nelle mani di un oncologo al quale ci affidiamo ciecamente o lasciare che di noi si occupi un centro specializzato sul quale riponiamo tutte le nostre speranze sono modi di liberarci della paura. A ben guardare però, più che di liberarci della paura dovremmo occuparci di affrontare al meglio il nostro problema.

Perdere la nostra autonomia decisionale non ci è di aiuto. Se vogliamo curare il nostro cancro in modo intelligente abbiamo bisogno del contrario: dobbiamo guadagnare più autonomia che possiamo, tanto da essere autonomi al pari di chi è sano o persino di più.

Non possiamo sperare che la nostra cura sia molto personalizzata se al momento di tutte le decisioni, piccole e grandi, non siamo presenti noi e non interveniamo forti della nostra autonomia.

C’è un’altra ragione per cui la nostra autonomia è importante. La cura del cancro, specie di certe forme di cancro, è una sfida difficile per tutti, anche per i migliori specialisti. Il malato e il suo medico sono entrambi di fronte a problemi che li mettono a dura prova. Gli specialisti sanno qualcosa in più, ma nessuno sa tutto ciò che occorrerebbe sapere per gestire una simile malattia e nessuno ha certezze su come è meglio agire.

Rende bene l’idea un’immagine di cui Newton si serve per descrivere la condizione degli scienziati che studiano la natura: esaminano conchiglie a riva per cercare di capire che cosa accade nel mare grande e sconfinato. Di fronte al cancro scienziati e medici sono davanti a un mare grande e sconfinato con conchiglie in mano. L’idea ci può spaventare, ma è molto meglio essere realisti e aver chiaro che, anche se sappiamo molto, sappiamo davvero poco.

In una situazione del genere le cose più importanti sono l’umiltà, lo studio, il ragionamento, il confronto, la discussione. Non c’è spazio per sapienti che credono di avere in partenza tutte le risposte e tutte le soluzioni. Noi con la nostra autonomia dobbiamo fare in modo che le decisioni che ci riguardano siano prese in questo clima, di dialogo sereno e aperto tra persone concentrate sulla sfida del cancro, non sul problema della propria identità di esperti.

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